Di Cosa è Fatta la Speranza

Quest’anno in occasione della festività dei Santi Patroni, la nostra parrocchia ha avuto il piacere di ascoltare Emmanuel Exitu, scrittore del romanzo “Di cosa è fatta la speranza” e don Claudio Suetti, parroco e infermiere presso Centro di Cure Palliative Pediatriche del Bambino Gesù.


Un confronto tra i due, una chiacchierata in cui Emmanuel, ci spiega il percorso personale e artistico che ha portato a “Di cosa è fatta la speranza”.

 
Emmanuel Exitu, scrittore e drammaturgo bolognese trapiantato a Roma, ci racconta i primi cinquant’anni di vita di Cicely Mary Strode Saunders. Siamo a Londra, in un periodo che va dalla seconda guerra mondiale fino al 1968. Mrs Gatlin, direttrice delle infermiere della prestigiosa Nightingale School, decide di portare le sue novizie direttamente sul campo, per curare i feriti. Una di loro, però, sembra un po’ strana: molto più alta, più vecchia, burbera e solitaria. La più brava. Il suo nome é Cicely. Emmanuel riesce a immedesimarsi nel suo personaggio diventando un tutt’uno con la sua anima.

Nel suo romanzo, lo scrittore, ci fa capire l’importanza di ogni segmento della vita di un malato, anche quando la medicina dichiara scientificamente che non c’é più nulla da fare. Di come si può amare anche se si sa che manca poco a morire, di come si può vivere fino all’ultimo respiro con un senso di dignità rinnovata.


Come mai nel titolo manca il punto interrogativo? Ci chiede l’autore. Perché, la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di persone che le fanno accadere, quindi la speranza ha bisogno di noi. Ha bisogno, come è nella storia di Cecily, di qualcuno che non si accontenta della frase “non c’è più niente da fare” ma che, anche se non sa bene che cosa fare, si sbatte perché deve trovare il modo di fare qualcosa. Questo nelle cure palliative è particolarmente strano, perché è come fare un passo indietro, è come lasciare spazio e ascoltare il malato. È questa cosa che rende possibile la scintilla della speranza: che accada qualcosa che uno pensa che non possa accadere ma, se deve accadere, è solo se qualcuno si apre.


“Quello che io ho capito facendo questo lavoro -dice lo scrittore- cioè mettendomi a scrivere sbudellandomi, è stato che a me interessava andare dentro alle cure palliative perché è una risposta a un problema di cui tutti parlano e di cui sembra che l’unica vera risposta sia l’eutanasia, mentre invece c’è una risposta che è densa di ragione e che è densa di dignità, che sono le cure palliative. Mi sono reso conto che le cure palliative sono un paradigma, sono un qualcosa che rispecchia tutto quello che avviene nel resto della vita, perché in loro, in questo prendersi cura c’è qualcosa che va a guarire: è terapia della malattia delle malattie che è la solitudine”.

Interviene don Claudio,offrendo la sua testimonianza di sacerdote che lavora come infermiere nel Centro di cure palliative dell’ Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Passoscuro,nel comune di Fiumicino. 

Don Claudio, ha avuto la capacità di farci sorridere, descrivendo un momento doloroso, quello del fine vita di un piccolo malato, di un padre arrabbiato con Dio e di come c’è più vita all’interno di una camera di ospedale che non sulla tangenziale a Roma
Come l’uomo spesso vive di false speranze, alla ricerca, dentro il suo caos, di qualcosa che non esiste


«Il Dio vero non si incontra fuori dalla tenebra o dalla malattia, ma dentro perché non ha paura di morire, anzi, va incontro alla morte.”
Davanti alla sofferenza dei bambini non ci sono risposte umane, esordisce il pastore, confidando che quando visita l’ hospice mette a dura prova la sua fede eppure quando è lì sente la presenza di Dio vera ed efficace.

Quella del romanzo, così come le singole storie quotidiane vissute da don Claudio, sono storie d’amore, storie di un abbraccio alla persona che sa mostrare la speranza a tutti gli uomini e le donne, raccontata in modo capace di parlare a tutti, dal profondo della nostra esperienza, costruendo ponti sul comune terreno della nostra vulnerabile umanità.

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