Don Paolo, diciannove anni di sacerdozio rappresentano un traguardo importante.
«Sì, mai avrei pensato di farlo a Roma, peraltro in questa Parrocchia. Sono qui da sei anni e mi piace molto l’atmosfera universale che si respira in questa comunità».
Cos’ha di particolare questa zona di Roma nord?
«E’ una periferia: siamo senz’altro lontani eppure allo stesso tempo vicini al Santo Padre».
Dal suo arrivo cosa è cambiato?
«Intanto mi sento più a casa. Conosco di più le persone, mi sento ‘arrivato’. Sei anni fa, invece, mi sentivo parecchio fuori contesto: mi sentivo molto straniero mentre invece ora è diverso. Il mio stesso festeggiamento al dopo-Messa di domenica scorsa è stato molto informale: abbiamo brindato, ci siamo fermati a chiacchierare ed è stato piacevole. Ecco: questa familiarità mi piace molto».
Quali sono i tre pilastri della vostra ‘azione’ parrocchiale?
«Preghiera, amicizia e servizio. Ne aggiungo anche un quarto: il gioco».
Lo spirito di servizio esiste anche in una comunità che vive a ridosso di una zona residenziale come l’Olgiata, molto spesso definita la Beverly Hills romana?
«Sì, la cosa che sorprende qui è la generosità. Molte persone mi chiedono un aiuto per esprimerla al meglio. ‘Mi aiuti a essere utile’: è una domanda che mi rivolgono molto spesso».
Un bel sentimento sul quale poggiare la nostra quotidianità.
«Queste persone vogliono che la loro vita sia veramente preziosa e non solo dal punto di vista professionale. Si chiedono: ‘Al di là di quello che sono riuscito a conquistare grazie alla mia forza, alla mia capacità, la mia vita vale?’».
Una comunità che interroga, che fa domande.
«Anche nell’anonimato».
Un buon principio.
«Direi di sì. Anche chi viene qua e ha realmente bisogno del pacco alimentare della Caritas, lo fa con l’intenzione di ripartire, non di appoggiarsi e basta».
Come parroco da cosa vorrebbe proteggere questa comunità?
«Anzitutto dai luoghi comuni».
Cioè?
«Un esempio: secondo i luoghi comuni la Chiesa è quasi sempre un disastro, non si crede nella Chiesa come istituzione. Un pensiero di sfiducia assai diffuso».
Ma non rientra in quel senso di sfiducia generale figlio dei nostri tempi?
«C’è sfiducia in generale, anche tra gli uni e gli altri. Uno spargimento di veleno incomprensibile, eppure le cose non stanno affatto così: ogni giorno incontro persone meravigliose».
Invece per quanto riguarda i giovani?
«Sicuramente c’è il problema della solitudine».
Quanta ne percepisce?
«Molta. Penso che i giovani si sentano soli anche quando sono insieme agli altri».
Cosa vorrebbe dire loro?
«Vorrei che sapessero che non lo sono».
Missione tutt’altro che facile: auguri.
«Si può fare. Ogni giorno incontro persone meravigliose.
Roberto Nassisi